Investimento e trading (parte I)

In questo articolo, il primo di una serie di 6, affrontiamo la delicata
transizione dall’approccio ai mercati finanziari tipico dell’investitore a quello del trader, con l’obiettivo di fornire alcuni spunti di
riflessione, uniti a strumenti operativi, per maturare la consapevolezza necessaria a operare in maniera autonoma.

L’investimento è la classica modalità di intervento sui mercati finanziari in un’ottica di medio-lungo periodo con l’obiettivo di rivalutazione del capitale impiegato. Le fonti necessarie per effettuare un investimento sono rappresentate essenzialmente dal risparmio, cioè la quota di reddito sottratta ai consumi.

Parte del risparmio può essere usata per investimenti in un’ottica di
crescita del capitale nelle più svariate forme: immobili, titoli di Stato,
fondi e, ovviamente, azioni. L’investimento azionario è la forma di
investimento più vicina al trading che tuttavia presenta alcune
sostanziali differenze:

Durata dell’investimento. Un intervento sul mercato azionario
avviene di norma con un orizzonte temporale di 5-10 anni, spesso in
occasione di introiti derivanti da particolari situazioni come smobilizzo di un investimento precedente, eredità, liquidazione eccetera.

Aspettative esclusivamente rialziste. Partendo dall’assunto che “i
mercati salgono sempre nel lungo periodo” si opera acquistando oggi in una prospettiva di rivalutazione futura senza curarsi dell’inevitabile saliscendi della borsa. Si opera solo nell’ottica del “valore” e non del prezzo.

Attenzione al “patrimonio” piuttosto che al “reddito”.
L’investimento è concepito come attività collaterale alla propria
professione i cui risultati andranno a influire sul patrimonio e non sul
reddito. L’investimento non ha di norma impatto sul tenore di vita.

Mancanza della componente di “gestione”. Un investimento ha
normalmente origine da fatti diversi rispetto alla situazione di mercato in cui nasce e termina in condizioni analoghe. Si compra solo perché si ha la disponibilità per farlo e si vende perché si sceglie di destinare altrove il capitale. In pratica, il fatto che si abbia oggi la
disponibilità di 100, 200 o 500.000 euro non implica necessariamente che sia il momento più adatto per comprare… Oltre a ciò, a causa dell’aspettativa rialzista, l’investitore non è in grado di gestire l’eventuale movimento contrario.

Probabilmente qualcuno dei lettori ha familiarità con il grafico che
segue:

seat

seat

Si tratta di Seat, uno dei cavalli di battaglia del boom del 2000, che ha dato enormi opportunità di guadagno ma anche deluso moltissimi
risparmiatori.

Il parco buoi

Questa è l’antipatica espressione con la quale ci si riferisce
tradizionalmente alla massa degli investitori che acquistano titoli,
obbligazioni o altri strumenti finanziari, quando hanno disponibilità di denaro da dirigere verso impieghi a medio lungo termine. La nascita del termine “parco buoi” probabilmente si perde negli anni d’oro della speculazione alle grida quando l’unico modo per accedere all’investimento azionario era il borsino della banca. In ogni caso il “parco buoi” definisce ancora oggi l’investitore “non professionista” che, non essendo a conoscenza delle dinamiche dei mercati finanziari tende a prendere decisioni “assistite”, acquistando in un’ottica di mantenimento della posizione a tempo indeterminato (buy & hold).

In realtà la strategia del “bue” non è sbagliata in sé, anzi. Esistono
casi eclatanti di acquisto in fase di collocamento con risultati
decisamente interessanti conseguiti nell’arco di pochi anni. Il problema con la strategia buy & hold è invece legato alla dinamica dei rialzi e dei ribassi delle quotazioni che hanno un impatto molto particolare sulle decisioni dell’investitore.

I portafogli sono mediamente in perdita, perché?

Questa considerazione prende spunto dall’andamento delle borse dal 2000 in poi. Pur con svariati tentativi rialzisti, le borse sono ancora lontane dai massimi toccati nel 2001 e ciò ha prodotto generazioni di investitori di lungo termine che, loro malgrado, sono ancora aggrappati a posizioni aperte in pieno boom e che oggi sono ridotte a una frazione dell’importo originario.

Ad aggravare questo aspetto c’è poi la tendenza dell’investitore a vendere i titoli sui quali guadagna tenendosi invece quelli sui quali perde. È evidente che a lungo andare questa strategia non può che produrre portafogli in perdita, anche perché quando un investitore che ha tollerato anni di perdita “virtuale” vede che il proprio titolo raggiunge nuovamente il livello di prezzo che aveva originato l’acquisto se ne libera, felice di “chiudere in pari”. E questo, tra l’altro, è proprio il meccanismo che crea le resistenze di lungo termine, originate appunto da operatori immediatamente delusi dopo l’acquisto che non hanno avuto la forza di vendere in perdita.

Un esempio classico è dato da Fiat, illustrato nel grafico seguente, che mostra come dopo il boom dell’86 siano stati necessari ben 12 anni per rivedere gli stessi livelli che, ovviamente, hanno favorito la vendita “in pari” di buona parte degli investitori “storici”.

fiat

fiat

Nel caso di Fiat, così come in altri casi, il buy & hold si è realmente trasformato nel “buy & hope”, letteralmente compra e spera.

Seguiranno altri articoli su questo tema con l’obiettivo di costruire un percorso che aiuti il lettore a spostarsi dall’investimento originato solo dalla disponibilità di denaro a una dimensione più vicina all’identificazione e sfruttamento delle opportunità, imparando che a volte la cosa migliore da fare è attendere.